Alla periferia di Boston, nei pressi di un boschetto di conifere, c’è un prato, che per alcuni mesi dell’anno viene coperto dalle nevicate. In questo spazio verde, o imbiancato, sono sparpagliate antenne metalliche posizionate su treppiedi, cupole del raggio di alcune decine di centimetri, telecamere a infrarossi, microfoni e altri sensori di forme strane e suggestive. Non saprei dirvi di più riguardo alla posizione precisa in cui queste attrezzature hi-tech si confondono con la natura – le coordinate sono infatti segrete, una misura di sicurezza contro vandali e ladri – ma posso dirvi che un osservatorio professionale per gli UFO ha esattamente questo aspetto.
Quella a sud della capitale del Massachusetts, dove l’università di Harvard possiede alcuni terreni, è un’installazione del Galileo Project di Avi Loeb, lo scienziato il cui nome viene spesso associato ad affermazioni su presunti ritrovamenti o avvistamenti di UFO. Se vi siete imbattuti in articoli (eccone uno) in cui la parola “alieno” coesiste nel titolo con le parole «scienziato di Harvard», allora potreste esservi posti un paio di domande: chi è questo professore a cui i giornali sembrano attribuire credenziali di affidabilità? Davvero merita la nostra fiducia? Per rispondere, torniamo a passeggiare idealmente tra i contatori Geiger e gli analizzatori di spettro dell’osservatorio.
Questo posto è stato costruito grazie al contributo di un facoltoso ingegnere informatico e dell’amministratore delegato di un’azienda che produce componenti scientifici, teniamolo a mente perché molte delle imprese di Loeb si avvantaggiano del sostegno economico di alcuni privati con ampie disponibilità. Parte dello scopo del Galileo Project è di ottenere un’immagine ad alta risoluzione di un UFO, cioè uno scatto da misurare in megapixel (un pixel moltiplicato per un milione) che consentirebbe di zoomare fino a leggere un eventuale “made on Exoplanet X” sullo scafo della navicella. Naturalmente, i telescopi disseminati in giro immortalano anche uccelli, satelliti, aeroplani etc. ed è qui che entra in gioco una tecnologia di riconoscimento, l’intelligenza artificiale applicata agli alieni, che ha il compito di scremare e sottoporre all’esame dei ricercatori soltanto le evidenze fotografiche più promettenti. La caccia allo scatto definitivo vi intriga? Potete contribuire volontariamente alla Grande Rivelazione, c’è solo un modulo da compilare sul sito ufficiale del Galileo Project.
Uno degli aspetti interessanti è che il Galileo Project è nato per fallire, cioè per escludere la presenza di artefatti prodotti da un’intelligenza non umana nei cieli del nostro pianeta. Sarebbe un’assunzione così importante da fare il giro e diventare una vittoria, candidandosi a rappresentare una solida argomentazione per chi vuole scrivere la parola fine in coda a un dibattito che va avanti da quel primo avvistamento del 1947. Nelle interviste, Loeb dice di volersi dare un orizzonte di cinque anni, durante i quali il cielo resterebbe sorvegliato per 24 ore al giorno, sette giorni su sette, in cento siti diversi (per il momento ne sono previsti sei). Se così tanti occhi meccanici non cattureranno altro che droni, lanterne cinesi e le luci intermittenti di Starlink, allora potremmo dare per scontato, con ragionevole grado di approssimazione, che non ci sia molto altro da avvistare.
Mi sembra un po’ il discorso dei 1999 modi di non costruire una lampadina inventati da Edison e quindi un esito compatibile con la direzione di tutto il lavoro di Loeb: sottomettere ai rigori del metodo scientifico la ricerca delle civiltà extraterrestri, per il momento lasciata in mano a politici o militari, non il massimo della competenza quando si tratta di attenersi al tipo di indagine formulata inizialmente proprio da Galileo. Tuttavia neanche io sono uno scienziato, quindi non posso evitare di dar voce ad addetti ai lavori critici di Loeb, che disegnano un range ampio e proporzionale alla fama del fisico ultrasessantenne: vi fanno parte ufologi radicali, certo, ma anche stimati professori. In questo secondo gruppo c’è chi gli rimprovera di sottrarre attenzioni ad altre, importanti, conquiste dell’astronomia. I meno inclini all’understatement invece lo accusano di cercare attenzioni, che al prof di Harvard di sicuro non mancano. Loeb è quel tipo di scienziato pop che viene inseguito dalle telecamere di Netflix, che si riunisce con alcuni ricchi stravaganti sull’isola di Richard Branson e con una storia abbastanza assurda: ad esempio sa paracadutarsi da un aereo in volo e guidare un carro armato.
Per completare il quadro, è bene ricordare che di Loeb si è parlato in almeno altre due occasioni. La prima risale alle settimane successive all’avvistamento del 2017. Un telescopio a Maui, nelle Hawaii, registrò, per la prima volta, un oggetto esterno al nostro sistema stellare: forse lo ricorderete, aveva il nome un po’ assurdo di Oumuamua, che in hawaiano vuol dire “messaggero” o “scout”. Dalla forma allungata e sottile, simile a quella di un sigaro, Oumuamua ha sorpreso gli osservatori accelerando nel suo percorso di avvicinamento al Sole, in una maniera non compatibile con quella di una normale cometa. Gli scienziati hanno comunque formulato alcune ipotesi, che tali rimangono, ma la spiegazione di Loeb fece il giro più ampio, finendo su tutti i giornali: per l’astronomo, poteva trattarsi di un artefatto extraterrestre dotato di un sottile foglio di metallo, in grado di funzionare come una vela che trasforma l’energia solare in propulsione. Da questa ipotesi è nato il libro Extraterrestrial, un successo editoriale tradotto in Italia da Mondadori con il titolo Non siamo soli. I segnali di vita intelligente dallo spazio. Negli USA è inoltre stato pubblicato un nuovo saggio di Loeb. Si chiama Interstellar e specula sulle possibili conseguenze di un incontro con una civiltà aliena.
Non siamo soli: I segnali di vita intelligente dallo spazio
Non siamo soli: I segnali di vita intelligente dallo spazio
Come al solito l’ipotesi Loeb rispetto alla scoperta di Maui non ha convinto tutti. Anzi. Karen Meech, astronoma dell’Università delle Hawaii, ha detto al New York Times che lo scritto di Loeb risulta troppo assertivo e che alcune caratteristiche di Oumuamua sono incompatibili con l’ipotesi dell’artefatto alieno: ad esempio sarebbe troppo lento, troppo denso per un materiale artificiale e traballante per un veicolo che deve puntare la vela in una direzione precisa. Due scienziati americani hanno inoltre proposto una spiegazione naturale, argomentata in uno scritto pubblicato su Nature, legata a come il ghiaccio di una cometa cambia nel tempo che Oumuamua ha passato alla deriva tra le stelle.
In un’altra occasione Loeb è partito per una spedizione di recupero marittimo nei pressi della Papua Nuova Guinea. È proprio nel mare a nord dello stato dell’Oceania che, secondo un database statale parzialmente classificato, nel 2014 sarebbero finite le sferule di una meteora esplosa. I membri del Galileo Project hanno chiesto e ottenuto l’accesso a ulteriori informazioni, sulla base delle quali Loeb ha dedotto che la presunta meteora si sarebbe avvicinata più del normale prima di scoppiare, come se fosse fatta di una lega artificiale simile all’acciaio inossidabile. Le analisi su alcuni detriti raccolti durante il dragaggio del fondale sono tutt’ora in corso e di recente è stata annunciata una partnership tra Harvard e l’Unitech locale. Nel frattempo lo schema si ripete: le affermazioni di Loeb scatenano il coro dei critici e la resa dei conti passa per i giornali, a cui piace parlare di ET.
Dobbiamo fidarci di Loeb? La sua caratteristica non è tanto credere nella vita su altri pianeti. Loeb si distingue dai suoi colleghi per indagare l’ipotesi che gli alieni abbiano visitato il nostro pianeta. Si tratta di una ricerca che lo scienziato di Harvard non considera più incerta di altre, le quali, però, ricevono cospicui finanziamenti, pur interessando di meno il pubblico. La differenza sarebbe anche un’altra: la dimostrazione della presenza degli UFO sulla Terra avrebbe conseguenze dirompenti, tali da rivoluzionare Filosofia e Teologia, costringendoci a riconsiderare il nostro posto nell’Universo. Loeb sembra animato da un incontenibile entusiasmo e nel suo ritratto pubblico si confondono meriti, doti e spigolosità. Anche i critici sembrano procedere in ordine sparso, c’è ad esempio chi lo attacca senza mezzi termini e chi gli riconosce pur sempre dei pregi. La posta in gioco in effetti è alta e chissà che un atteggiamento spregiudicato non possa essere giustificato dei fini.
Guardo film e gioco a videogiochi, da un certo punto della vita in poi ho iniziato anche a scriverne. Mi affascinano gli angolini sperduti di internet, la grafica dei primi videogiochi in 3D e le immagini che ricadono sotto l’ombrello per nulla definito della dicitura aesthetic, rispetto alle quali porto avanti un’attività di catalogazione compulsiva che ha come punto d’arrivo alcuni profili Instagram. La serie TV con l’estetica migliore (e quella migliore in assoluto) è comunque X-Files, che non ho mai finito per non concepire il pensiero “non esistono altre puntate di X-Files da vedere per il resto della mia vita”. Stessa cosa con Evangelion (il manga).
Más historias