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Ci sono piccoli grandi festival che illuminano questo autunno che tarda ad arrivare. Luoghi periferici rispetto ai grandi centri di potere e tutta quella provincia che si muove, crea, fa. Nell’ultimo weekend di un’estate che si è prolungata a dismisura abbiamo battuto le piste che ci hanno portato in Umbria a Foligno allo Spazio Zut per la rassegna Umbria Factory Off (che ha toccato anche i comuni di Cannara, Spello e Spoleto) e nelle Marche per l’ottava edizione di Ascoli Piceno Present (a cura di A.M.A.T. e del direttore Gilberto Santini), due piazze vive, energetiche, colorate, attive. In programma a UFO figuravano, tra gli altri, Marco Martinelli, Luisa Borini, Virgilio Sieni, Nerval Teatro, Roberto Abbiati. Proprio questi ultimi due sono l’oggetto della nostra visione e analisi.
Maurizio Lupinelli ha basato tutta la sua esperienza artistica lavorando con quelli che i Lenz di Parma definiscono attori sensibili o persone diversamente abili. Questo nuovo La buca è un tentativo, raffinato e delicato, fine e celebrale, di celebrare tutto il non-detto che staziona tra le righe di Samuel Beckett, la rarefazione, la postura, l’insoluto, il dubbio, la frammentazione, la caducità, la sospensione. Un’elaborazione, tra Aspettando Godot e Finale di Partita, che mette al centro appunto la buca del titolo che poi, e sta qui l’arcano e il mistero e l’irrisolto, buca non è. E’ più un tubo, orizzontale e non verticale. Un tubo che è quasi un verme dentro la pancia del quale due figuri strisciano fuori per poi rientrarvi (come nelle nostre case-loculo) alla fine del loro consueto passaggio nel mondo. In uno spazio bianco manicomiale fanno rumore e scalpore e illuminazione pantaloni, cappello, cappotto (Gogol?), valigia, scarpe in nero. Sono personaggi necessariamente dei bassifondi (Gorkij?) che emergono dalle fogne dell’anima in decine di minuti di un silenzio compatto come una torta di ricotta. Ha un fazzoletto nel cappello (come il mendicante arabo nell’Alice di De Gregori che incidentalmente abita proprio a Spello), poi spunta un cappio. La buca si trasforma in due bidoni della spazzatura rievocazione di quelli dove vivono, già morti defunti e scheletrizzati, i genitori di Hamm, nell’ultima mossa degli scacchi. C’è instabilità nell’aria e rassegnazione e reiterazione senza riuscire a cambiare l’ordine delle cose in una rincorsa tra alba e buio che ritorna senza scalfire il sistema, senza mutare gli ingranaggi in un perpetuo perpetrarsi avvizzito e smunto dipinto da non-colori, il bianco, il nero, il grigio, come queste esistenze (le nostre?) che escono dal buco, credendo di muoversi, agitandosi, per poi tornarvi, sconfitti e stanchi, passando da una cavità ai barili della pattumiera, dalla padella alla brace, senza pacificazione: Le foglie mormorano, bisbigliano, parlano della vita, non si accontentano di essere morte, fanno un rumore di piume. Pennellate di poesia esistenziale.
Altro artista che lavora attraverso una recitazione in sottrazione è sicuramente Roberto Abbiati, teatrante rinascimentale che costruisce, suona, dipinge, disegna, recita. Le sue sono installazioni in movimento. In Circo Kafka ci dovrebbe essere l’essenza dello scrittore praghese, la sublimazione delle sue opere, un ritratto liofilizzato, asciugato, prosciugato, estrapolato. Abbiati (la cui faccia modulare ci ha sempre ricordato un incrocio tra Van Gogh e Antonio Ligabue) è immerso, senza parole, in una stanza che rievoca quella di Gregor Samsa e la Camera di Arles appunto del pittore olandese, ha tuta bianca, che poi verrà tranciata, e occhiali da saldatore. Suona la zampogna, il violoncello, il bandoneon. Si anima docilmente un immaginario fumettistico letterario dove poliziotti e avvocati si affacciano, passando senza lasciare il segno. In una impalcatura di assurdo e non-sense (alla Wes Anderson), in un’atmosfera stralunata, grottesca e surreale, il tutto risulta leggermente freddino, impalpabile, non riesce a incidere.
Ad Ascoli invece tra i nomi in cartellone spuntavano Roberto Castello, Licia Lanera, Jan Fabre. Qui abbiamo scelto dapprima Officina Oceanografica Sentimentale della compagnia Samovar con una roulotte piazzata in una piazzetta laterale rispetto alla movida e allo struscio cittadino, impatto davvero scenografico tra il caravan old style davanti ad una facciata architettonicamente sontuosa carica di storia. Soltanto per sette spettatori alla volta, siamo stipati (quindici minuti la durata della performance) al suo interno in questo microviaggio che riappacifica, rasserena, fa respirare. In questi anni abbiamo assistito ad altre due situazioni simili: Caravankermesse di David Batignani e Una tazza di mare in tempesta di Roberto Abbiati dove, lo diciamo subito, il calore e i brividi magnetici e magmatici erano stati più coinvolgenti e sentiti. Operazione da festival, piccola, soffice, leggera. Potremmo essere dentro una nave che si trasforma in un sommergibile: l’interazione è scarsa, eseguiamo soltanto dei movimenti. C’è il cinguettio ruspante e stridulo dei gabbiani, gli oblò alle pareti (Luna di Gianni Togni ci viene sempre in soccorso), un pupazzo di sirena che esce fuori da una scatola e conchiglie per annusare e telefonare al mare, carillon, perle ritrovate negli abissi. Dietro un mini sipario si apre un armamentario artigianale di legni e rotelle, carrucole e funi, fili e corde, pesi e bilanciamenti, pompette, pistoni, aggeggi vari, tubi per la respirazione nelle profondità marine, un message in a bottle (i Police lottano ancora assieme a noi). Spuntano le bolle di sapone, le meduse che sono paralumi di cristallo; potremmo essere dentro la baleniera che cerca disperatamente Moby Dick o sul Titanic poco prima dell’affondamento. La chiusa è uno scritto di Erri De Luca che si augura la fine del mondo, anzi che la sperata Apocalisse azzeri l’uomo, considerato nefasto virus per il Pianeta e salvi solo popoli zingari e meticci, un napoletano e un ebreo, cancellando l’Umanità. Quando il Restare Umani diventa parallelismo dell’annientamento, per salvare il Globo ci dobbiamo estinguere. C’è chi ama gli animali e la natura ed è tanto sensibile e sogna un mondo senza più umani, diceva Luca Carboni in Luca lo stesso. Come quelli che invocano il meteorite e la catastrofe perché odiano il genere umano. Messaggio pessimista. Lavoro confortevole e piacevole al quale però manca un po’ di folle magia, scarseggia lo spunto, annaspa il guizzo.
Di difficile lettura Con grande sprezzo del ridicolo degli Asini Bardasci che partono con una notizia di cronaca realmente accaduta a fine Ottocento a Torino. Un gruppo di africani catturato e mostrato al Parco del Valentino in una delle tante Esposizioni Etniche che proliferavano in quegli anni di colonialismo in Europa e Stati Uniti. Ottime le musiche, così come la scena, che creano il giusto mistero che avvolge la vicenda che si svolge su due piani: l’ambito casalingo, interno, familiare, e quello fuori, altro, lontano dalle mura domestiche, appunto lo Zoo. Una famiglia trasferitasi in Piemonte (l’immigrazione interna), un dipendente del Ministero degli Esteri (ma millantatore riguardo alle proprie competenze), una famiglia e una casa costruite con dedizione che forse non bastano per sentirsi finalmente realizzati e soddisfatti (la critica all’istituzione familiare) e questa ricerca dell’esotico, del diverso (che ci fa paura e contemporaneamente ci attrae), per sentirci vivi. La casa è in scena una tavola imbandita e una torretta con una botola citata a più riprese, anche questa misteriosa e attorno alla quale, pur non venendo mai aperta (come non si dovrebbe mai scoperchiare il Vaso di Pandora se si vuole una vita tranquilla e serena), ruota tutta la vicenda, sul pericolo nello spalancarla, sul desiderio di murarla per non far uscire voglie e distrazioni. Il protagonista si innamora visceralmente di una delle africane prigioniere in gabbia e perde il senno, non va a lavoro, dimentica la famiglia, impazzisce come l’Orlando furioso. E’ qui che la gabbia, reale per la popolazione africana, diventa metaforica e simbolica per il protagonista compresso dagli obblighi familiari noiosi. Per fortuna che si scoprirà che gli esposti non sono principi ma poveri africani così che le molestie da incidente diplomatico diventano un piccolo incidente di percorso perdonabile da società come dalla moglie. Cosa ci vogliono dire gli Asini Bardasci? Che la famiglia è la tomba del desiderio? Che l’uomo bianco continua a vessare l’uomo nero ritenendolo inferiore? Manca un approfondimento e i due piani, le due grandi domande centrali, non hanno uno sbocco rimanendo ancorate ad una rappresentazione grottesca di pennellate d’antan che non si fanno metafora restando su un piano simbolico, una favola blanda che non punge forse perché si è puntato troppo sul rapporto di dipendenza amorosa e tormentata impulsiva stalkerizzata passionalità non controllata che sui due grandi temi sociali messi sul piatto della bilancia: l’istituzione familiare da una parte e il dominio di un’etnia su un’altra. Criptico, enigmatico, nebuloso.
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